Oggi il tempo si è fermato

Su questo blog parlo dei miei viaggi. Ma oggi voglio parlare del viaggio di Paola.
Quello che segue è un piccolo “esperimento narrativo”. Avrei voluto pubblicarlo a puntate, ma poi si sarebbe perso il filo. L’assunto è questo: siamo diventati insensibili all’Altro, non siamo capaci di percepire che l’Altro può provare le nostre stesse sensazioni. Anche quando capitano le sciagure più tremende (i morti per Covid, i migranti annegati nel Mediterraneo, le persone sotto alle macerie di un terremoto…) l’Altro non è una persona che soffre bensì il numero in una statistica veicolata dai Mass Media.

Questa però è la storia di Paola e di sua figlia Rosalia. E’ una storia di tanti anni fa. Nemmeno io conosco tutti i dettagli ma ho provato ad immaginare quello che non sapevo. Ho cercato di descrivere più che altro le sensazioni.  Volevo immedesimarmi e sentire che Paola è una persona come me (e che Rosalia potrebbe essere mia figlia). Volevo dimostrare che le loro gioie e le loro sofferenze sono quelle che ognuno di noi può provare quotidianamente. Andiamo col racconto…

Giovedì 5 giugno
Oggi finisce l’anno scolastico. Rosalia è eccitatissima, questo è il giorno più bello dell’anno. Vi è mai capitato di aspettare un figlio all’uscita dell’ultimo giorno di scuola? Suona la campanella e, da dentro l’edificio, esplode un urlo di gioia. Finalmente vacanze! Ora Rosalia partirà per raggiungere il papà al mare. Resterà con lui qualche settimana. E già prova un pizzico di nostalgia per quelle settimane che passerà lontano dalla mamma.

Lunedì 23 giugno
Inizia l’ultima settimana di lavoro per Paola. Ha 39 anni ed è impiegata alla Bauli di Verona. Forse avrà dovuto contrattare per ottenere qualche giorno di ferie. Tutti sappiamo la fatica per incastrare le ferie con quelle dei colleghi. E quando riesci ad avere i giorni che volevi la soddisfazione è immensa: ti pare di aver vinto la terza guerra mondiale e di dominare il mondo.

Martedì 24 giugno
Paola e suo marito, separati da qualche tempo, sono in ottimi rapporti. Rosalia, la figlia di 8 anni, adesso è al mare dal papà. La mamma deve raggiungerli per passare con loro qualche giorno. Poi Paola e la bimba torneranno a casa, a Verona. Però oggi Paola è veramente triste e demoralizzata: non ha trovato posto sull’aereo. Che fare? Disperazione.
Chi è genitore conosce la nostalgia per la distanza da un figlio piccolo. Tutti siamo stati bimbi e conosciamo benissimo la tristezza per una separazione, anche di poche settimane, dalla propria mamma.

Mercoledì 25 giugno
(Non so se sia successo proprio mercoledì ma io voglio immaginarlo così)
Che botta di culo! Paola, in extremis, ha trovato un posto sull’aereo perché un signore, a causa di un contrattempo, ha rinunciato al volo. Quella sera telefona a Rosalia per dirle che venerdì sera potrà raggiungerla. Anche Rosalia è eccitatissima, sta per rivedere la mamma.

Venerdì 27 giugno
Ultimo giorno di lavoro! Vogliamo parlare del peso dell’ultimo giorno prima delle ferie? Le vacanze sono lì davanti a te, eppure quella giornata sembra non finire mai. Paola ha una sola cosa in testa: il viso della sua piccola Rosalia. Ancora poche ore e la potrà rivedere. (Non so come sia andata realmente. Forse Paola è già in ferie, o forse ha lavorato solo mezza giornata. Infatti deve partire molto presto da Verona visto che il suo volo decolla da Bologna alle 18.00)

Venerdì 27 giugno
Incazzatura!!!!! Che rabbia quella che provi quando, all’arrivo in aeroporto, leggi che il tuo volo è in ritardo. Ed è quello che capita a Paola. Arriva alle “Partenze/Departures” e scopre che il volo IH870 ha 113 minuti di ritardo. Che incazzatura!!!! Poi pensa alla sua piccola Rosalia e questo la consola.

Venerdì 27 giugno
Oggi il tempo sembra essersi fermato. Due ore di ritardo: cosa fare? All’incazzatura segue la noia. Due ore non sono mica uno scherzo da far passare: nel 1980 non ci sono internet, facebook o whatsapp per ingannare il tempo. Paola nell’attesa legge un giornale, una rivista o forse un libro portato da casa. 

Venerdì 27 giugno, ore 20:08 (Bologna)
Finalmente il decollo! Paola è stanchissima, si siede al suo posto e probabilmente chiude gli occhi per riposare durante quel breve viaggio. Siamo alla fine di giugno e il sole tramonta verso le 21. Quindi c’è ancora molto chiaro. Tuttavia un “buio” impenetrabile cala sul volo di Paola. E una tenebra senza fine avvolge non solo quel DC9 ma l’Italia intera. 27 giugno 1980: oggi, per 81 persone tra le quali Paola, il tempo si è fermato davvero.  

Venerdì 27 giugno, ore 21:00 (Palermo)
C’è ancora chiaro ma i bimbi devono andare a nanna presto, anche se sono in vacanza: vero Rosalia? Non posso sapere se sia andata così, però mi piace immaginare che, a distanza di parecchi km, Rosalia abbia chiuso gli occhi e si sia assopita nello stesso istante della mamma Paola.

Sabato 28 giugno
Rosalia si è svegliata ed è eccitatissima, finalmente rivedrà la sua mamma. Io immagino quel risveglio come la mattina di Santa Lucia. Apri gli occhi, ti fiondi giù dal letto perché sai che di là, in soggiorno, c’è la sorpresa che ti aspetta. Che frenesia!
Invece il papà deve trovare le parole per spiegare a Rosalia che ieri sera la mamma non è arrivata. Non arriverà nemmeno oggi e, quasi sicuramente, non arriverà mai più. I bambini vogliono solo la Verità, ma come si fa a spiegare ad una bimba di 8 anni che la sua mamma adesso è a 3.000 metri di profondità in fondo al Tirreno.

OGGI, 27 giugno 2021
Rosalia è cresciuta, è diventata una donna e oggi ha quasi 10 anni in più di sua madre. Anche lei, come Paola, ha una piccola figlia. Sono passati 41 anni ma a quella bimba, che un sabato mattina si svegliò carica di gioia per l’incontro con la mamma, nessuno ha mai raccontato, fino in fondo, la Verità.

Pochi anni fa il tribunale di Palermo condannò i ministeri della Difesa e dei Trasporti a risarcire i parenti di alcune vittime. Fino allo scorso anno Rosalia aveva ricevuto solo un quarto della somma spettante perché, questa è la giustificazione, “il Governo non ha i soldi per coprire l’intero importo”. Un risarcimento non può ridarti una mamma però questo piccolo dettaglio dimostra che, nel nostro assurdo Bel Paese, oltre alla Verità e alla Giustizia abbiamo smarrito anche la Dignità.

[Questa storia è liberamente ispirata da un articolo del “Corriere della Sera – Edizione del Veneto” del 2020. La foto del mare di Sicilia è stata gentilmente concessa da Veronica Fanciullo]

Il Sinai bolognese

Ho passato la domenica mattina sul “Sinai” della montagna bolognese. State tranquilli: non ho portato giù una nuova release dei 10 comandamenti. Anche perché io, nelle vesti di Mosè, sarei un po’ troppo “anarchico” (del tipo: Art. 1 : sono abrogati i 10 comandamenti; Art. 2 : fate un po’ quello che potete). Non funzionerebbe mica!🤔
Allora vi spiego come è andata. Storicamente, intendo.


Ieri sono andato al Santuario di Montòvolo che è dedicato alla Beata Vergine della Consolazione. Sembra risalire, sulla base della data riportata nella lunetta, all’anno 1.211. Però sorge sui resti di un probabile tempio pagano già presente nei primi secoli D.C.
Quello che mi ha colpito maggiormente, anche grazie alla presentazione fatta dai bravissimi volontari che gestiscono il sito, è stato l’oratorio di Santa Caterina d’Alessandria. Ed è qui che inizia la Storia. Io la racconto a modo mio, ma deve essere andata più o meno così…
Siamo nel 1217. Papa Onorio III fa un giro di telefonate per organizzare la V Crociata. Io immagino che tutti i sovrani europei, all’inizio, siano rimasti un po’ freddini (ancora memori della infame IV Crociata). Alla fine si mettono d’accordo e si parte: l’obiettivo è conquistare la città portuale di Damietta, sulla foce del Nilo.
L’azione militare è un successo e i crociati conquistano la città. Poi però iniziano a litigare tra francesi e italiani (e qui si capisce da dove nascono i mali dell’Unione Europea). Mentre i cristiani si scannano tra di loro gli arabi si riprendono la città. Così i “nostri” devono tornare a casa con le pive nel sacco. Ma, al rientro, portano con sé un’idea geniale, una start-up di successo: rifare il Sinai a Bologna! 😳
L’idea non è malvagia. Sul Sinai (quello vero) c’è il Monastero di Santa Caterina d’Alessandria. E il pellegrinaggio fin là garantisce l’indulgenza dai peccati. I templari pensano: basta costruire un edificio dedicato a Santa Caterina e il gioco è fatto. Poi, per l’assoluzione dai peccati, non sarà mica necessario attraversare il Mediterrano per scannare musulmani. A quel punto basterà uscire a Sasso Marconi, seguire la Porrettana e arrivare a Montòvolo. E’ geniale! Una sorta di Low Cost dell’indulgenza plenaria. (se ci fosse già stato Lutero non l’avrebbe presa bene😅)


Ed è così che è nato il “Monte Sinai bolognese”.
Io ci ho passato solo una mattina, però mi sento già “indultato” dai miei peccati.
Comunque, per le cazzate che sto scrivendo, dovrò fare un altro giro (oppure, in alternativa, dovrò organizzare una nuova crociata)

Sulla riva d’un mare di nuvole

L’antefatto risale a circa un anno fa. Ottobre 2019: dopo una breve escursione sulle montagne della Sambuca, sto bevendo un caffè a Molino del Pallone. Si avvicinano due signori bolognesi. Io confesso che sono lì per fotografare i colori dell’autunno. Loro mi suggeriscono che, se voglio davvero vedere quei colori, allora devo andare nella Valle dell’Orsigna. Non l’avessero mai detto: che quando io mi metto in testa una cosa…

Ottobre 2020: ritorna l’autunno e con esso la voglia di salire sull’Appennino. Che poi Orsigna, la montagna di Tiziano Terzani, non è un luogo qualsiasi ma assomiglia a un frammento di Himalaya sull’appennino toscano. E allora via…Però la vita non segue mai la strada che avevi progettato. E così, sul sentiero verso il Rifugio Portafranca, mi faccio rapire da quei due “malandrini” di Maurizio Pini e Francesca Risaliti. Io volevo andare in montagna e loro invece mi portano in riva al “mare”: un oceano fatto di nuvole sulla vetta del Monte Gennaio. Aveva proprio ragione Paolo Rumiz: “Arrendersi allo stupore è la chiave di tutto… il viaggio non è fatto per quelli che hanno smesso di meravigliarsi della vita”

Due esploratori portoghesi

Non trovo le parole per descrivere il Mosteiro dos Jerónimos. Quindi non mi ci metto. Ci sono molte chiese che hanno peculiarità artistico/architettoniche che le rendono bellissime. Ma questa ha qualcosa in più, questa Chiesa è “divina” (e mentre lo scrivo intuisco che, per questa frase, finirò all’inferno senza passare dal Via😂)

Non trovando le parole mi soffermerò sui dettagli. E non sono dettagli irrilevanti. Qui giace il corpo di Fernando Pessoa. Mi sono fermato a lungo davanti alla sua tomba. L’ho fotografata da ogni angolazione, visto che è circondata da citazioni di 3 suoi eteronimi.

Poi, passando in chiesa, mi sono fermato davanti al cenotafio di Vasco da Gama. Altro eroe nazionale come Pessoa.
Ed è lì che ho intuito il legame tra i due personaggi: uno è il grande esploratore del Mondo, l’altro (Pessoa) è il grande esploratore dell’anima.

Si vede che è il destino dei portoghesi quello di diventare scopritori delle vie del mare come delle vie dell’Essere. 











Sulla strada delle 52 gallerie

Una Domenica sul Pasubio percorrendo la Strada delle 52 Gallerie. Ma io voglio ribattezzarla “la strada della Pace”. Si, perché quando arrivi lassù, dopo 800 metri di dislivello ed hai sudato anche l’anima… è proprio lì che la tua milza invoca l’armistizio. Quando arrivi lassù ti passa qualsiasi voglia di fare una guerra.

Io adoro Marco Paolini e i suoi spettacoli. Ha la capacità di farti sorridere mettendo un pizzico di ironia anche nelle vicende più tragiche: Ustica, il Vajont, lo sterminio dei portatori di handicap col piano AktionT4… Per poi condurti ad una seria riflessione su quei fatti. E io voglio provare, molto umilmente, a fare lo stesso. 

Prima guerra mondiale: gli italiani decidono di realizzare una mulattiera per portare rifornimenti alle truppe sulla sommità del Pasubio. Per realizzarla scaveranno 52 gallerie in quello che diventa un capolavoro di ingegneria militare. A chi affidi l’incarico di progettare e scavare queste gallerie? Ma ovviamente al tenente Zappa. Lo giuro non me lo sono inventato, l’ironia ce l’ha messa lo Stato Maggiore. E poi quando, nel mese di Aprile, devi sostituire il tenente chi ci metti a dirigere i lavori? Ma il capitano Picone: Nomen omen. Lo giuro, è vera anche questa: sembra una storia di Topolinia. Io adoro lo Stato Maggiore italiano: erano geniali nell’affrontare la guerra con “ironia”. Come dice Paolini nello spettacolo sul Vajont: “in questa vicenda sembra che i nomi li abbia messi un greco antico”. 

Ma il contesto ci impone di tornare seri. Ecco, ci sono delle circostanze nelle quali, per capire la Storia, occorrono concetti di altra origine. E per capire l’assurda e incomprensibile vicenda della prima guerra mondiale bisogna ricorrere a concetti di idraulica. Si perché la 1° Guerra Mondiale, a ben vedere, è un sifone che si è inghiottito tutto il ‘900. La Rivoluzione Russa, i fascismi, la 2° Guerra Mondiale, la Shoah, la Guerra Fredda e la divisione in blocchi, la Palestina e il Medio oriente, le guerre nei Balcani degli anni ’90… tutto il ‘900 è drammaticamente inghiottito (e originato) da quei 4 anni di inutile carneficina.

“Capire l’Europa del 1914 era indispensabile per capire quella del 2014”. Così diceva Paolo Rumiz in un documentario sulla Grande Guerra. Ed aveva proprio ragione: ogni cosa del mondo di oggi è uscita da quelle trincee.

Nei giorni scorsi ho rivisto il documentario di Rumiz. E balza all’occhio come quella guerra fosse un insieme di tante cose diverse. E anche qui sul Pasubio fu una cosa drammaticamente unica nella sua specie. “Una guerra immobile per topi”, così il giornalista definisce il conflitto tra queste montagne.

Io non riuscirei a spiegarla altrettanto bene. Lascio il compito alla conclusione del giornalista:
“Quando la guerra finì i corpi fatti a pezzi erano così numerosi che si aspettò il 1921 per riaprire la montagna agli umani: 26 mesi c’erano voluti per sgombrarla dai corpi.
Ma le ossa biancheggiarono così a lungo nei burroni che fino agli anni ’50 si lasciarono sul posto dei cestini poiché i gitanti ve le deponessero”.

Erano le ossa di un’intera generazione di giovani mandati al massacro. Era il cadavere del ‘900 inghiottito da quell’incubo di guerra.

Unicità bolognesi

Si può avere il Jet Lag appenninico? Certo che si può avere: e io sono la dimostrazione. Domenica mi sono alzato alle 4.00 per vedere l’alba alla Sambuca. Da quel giorno ogni mattina mi si spalancano gli occhi alle 3.49. Forse più che un “Jet Lag” mi sono beccato la “Maledizione dei Vergiolesi”: pare colpisca tutti i turisti che, la domenica mattina, vanno a rompere le palle ai residenti della Sambuca (che detta così mi sento come un Testimone di Geova… dunque mi sta bene questa “punizione divina” 🙂

Tornando a casa mi sono voluto proprio fermare a La Scola. Gli edifici del piccolo borgo risalgono al XIV secolo. Ma nel nome Scola è rimasta una traccia di origini molto più antiche. La parola longobarda “Sculca” rappresentava il “posto di guardia”. E in effetti proprio di qui passava il confine tra l’Esarcato e i territori longobardi.

Girando per le viuzze questo borgo ti appare come un gioiello più unico che raro. Poi pensi a quanti borghi, unici come questo, ci sono in Italia. Si ma qui è diverso, questo appennino bolognese è un “accumulatore di unicità”. Non ci credete? Posso dimostrarlo:

Dove potete trovare l’unica chiesa di Alvar Aalto in Italia? A Riola di Vergato ovviamente. Vabbè, non l’ho fotografata ma giuro che c’è.
Dove potete trovare una costruzione eclettica e follemente geniale come la Rocchetta Mattei se non lungo la porrettana?
Sfido chiunque a trovare una roba simile sul pianeta (e non portatemi esempi di Las Vegas che gli americani sono una categoria a sé stante che esula dal genere umano).

Sambuca dal tramonto all’alba

Non so che viso avesse (*) Selvaggia dei Vergiolesi ma, tutte le volte che vengo qui al Castello di Sambuca, penso a lei affacciata a una di quelle finestre. Sabato notte, per fortuna, non si è presentata al davanzale. I motivi sono questi: 1) io non sono Cino da Pistoia 2) lei è un tantino morta da circa 700 anni.

Una finestra. Questo luogo, visto di notte, si presenta come una finestra sul Tempo e sull’Universo. Sopra un cielo stellato che parla dell’Infinito e a terra i ruderi diroccati che raccontano dei secoli andati.

E tu sei lì che pensi a tutte queste menate…. mentre, davanti al cancello del cimitero (lì a pochi metri), passa una silhouette nera. A quel punto ti chiedi: ma perché diavolo ho letto tutti quei romanzi di Stephen King?
E’ evidente che si tratta di un quadrupede: un piccolo cinghiale oppure un gatto nero taglia XXL. Io comunque decido di andarmene. Anche perché devo tornare domenica mattina, alle 5.00, per vedere l’alba che bacia il borgo di Sambuca.


(*) qualcuno avrà colto la citazione e, come avrà intuito, sto leggendo la quasi autobiografia di Francesco Guccini: dunque, da queste parti, un richiamo era più che doveroso.

Una montagna a dimensione di uomo

Lo ammetto: sono arrivato a scoprire l’Appennino molto tardi… vabbè si può sempre recuperare.
E lo scorso week-end ho recuperato un pochino grazie alla scoperta di un piccolo scorcio dell’Appennino ligure.

“Una montagna a dimensione umana […] Tanto geografia che storia” con queste parole, in un’intervista di alcuni anni fa, il cantautore Giovanni Lindo Ferretti definiva l’Appennino.
Ed è proprio “una montagna a dimensione umana”, ma anche così tanto dimenticata dall’uomo. Una “montagna orfana” direi. Ma gli aggettivi per definire l’Appennino si potrebbero sprecare. E mi sa che un giorno, prima o poi, mi metterò a scrivere un dizionario degli aggettivi utilizzabili per raccontare queste montagne.

Quello nelle foto, per tornare a noi, è il borgo di Péntema, una frazione di Torriglia che si inerpica a 800 metri all’estrema periferia della Città Metropolitana di Genova. Un borgo dove risiedono circa 20 persone. Molto più numerose però sono le statue in creta del famoso presepe che, da ormai 25 anni, caratterizza il Natale in questo paesino di montagna. Che poi si tratta di un presepe solo di nome. Perché, nei fatti, si presenta come un vero e proprio “museo etnografico diffuso”, un museo che si sviluppa tra le vie del paese.
Sono sempre più convinto che in ogni angolo dell’Appennino ci sia un mondo da scoprire. E anche questo piccolo borgo non fa eccezione.

Per saperne di più: http://www.pentema.it/

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Un paese ipogeo

La scorsa estate ho passato molto tempo sull’appennino pistoiese. Ho raccontato quasi tutto. Ma qualcosa mi era sfuggito. Forse perché è stato un periodo terribile che cerco di “rimuovere” o forse chissà per quale altro motivo. Recentemente ho ritrovato gli appunti del 30 giugno… ed è un posto che vale la pena conoscere.   

Raccontare la mezza giornata a Campo Tizzoro non è facile, è da tempo che cerco di trovare il modo giusto per farlo. E’ un posto strano, affascinante (di un fascino tutto particolare) e anche un pochino inquietante. A prima vista può sembrare una fabbrica a forma di paese oppure, viceversa, un paese a immagine e somiglianza della fabbrica. In realtà è un museo di “antropologia industriale” a cielo aperto.

Arrivando non possono sfuggire queste grandi ogive di cemento, ce ne sono 8 (mi pare) in tutto. E subito pensi che siano un monumento alla stupidità guerrafondaia del ‘900. Poi ti spiegano che sono pozzi di accesso al labirinto sotterraneo delle gallerie anti-aeree. Un vero e proprio “paese ipogeo” che si dirama parecchi metri sotto al paese reale.   

La storia di Campo Tizzoro si sviluppa in simbiosi con quella della SMI (Società Metallurgica Italiana). Ed è la storia di un’epoca lontana, quando la fabbrica era ancora radicata in un tessuto sociale, quando l’Economia dipendeva dalla Comunità e non viceversa. Forse sto anche esagerando però mai come il documentario, oserei dire esilarante,  dell’Istituto Luce che inizia la visita all’ex stabilimento. Serve una sana (e coraggiosa) curiosità antropologica per affrontare il video. E allora, forte della tua curiosità, puoi scoprire tutte le “opere assistenziali” della SMI: le scuole, gli alloggi per operai e dirigenti, gli spazi ricreativi… addirittura i luoghi di culto. Scopri che “ampi e moderni fabbricati forniscono ai lavoratori le sane gioie di un comodo focolare”. E risalendo nella gerarchia aziendale sono riservate delle “villette civettuole per i dirigenti”.

Mentre i papà sono al lavoro “piccoli alunni lindi disciplinati e volenterosi vanno allo studio come a una festa”. E qui, a scuola, “le bimbette, che evidentemente ricevono un ottimo esempio in casa, promettono di diventare brave massaie” (lo giuro, dice veramente così). Ognuno ha il suo posto nel quartiere residenziale della SMI e agli scapoli sono riservati i posti in albergo dove possono rifocillarsi al ristorante. Ma la voce narrante ci tiene a precisare che “nulla può eguagliare la poesia del desco familiare dove siede la prolifica famiglia operaia”. E alla fine la voce fuori campo aggiunge un laconico commento: “Poveri scapoli!”.

Ad un certo punto, mentre guardi il documentario, ti aspetti che salti fuori Corrado Guzzanti che, alla guida di un manipolo di arditi, si lancia alla conquista di Marte per “spezzare le reni” ai rossi marziani bolscevichi. In fondo c’è qualcosa di ridicolosamente educativo in questi documentari LUCE. E’ impossibile trattenere la risata, ma è altrettanto utile a capire cosa siamo stati e come, nel corso di pochi decenni, può cambiare la cultura di un popolo.

Della fabbrica di munizioni della SMI non ho molto da mostrare. Le foto sono vietate per motivi di “riservatezza” visto che è pieno di munizioni di ogni taglia. Si va dai bossoli calibro 305 per cannoni Skoda delle navi austro-ungariche fino ai pallettoni da caccia. Un piccolo angolo su un tavolino defilato è dedicato al caso JFK: già perché i bossoli trovati a Dallas avevano il marchio “SMI Campo Tizzoro” e, per questo motivo, la fabbrica fu sottoposta all’inchiesta del governo americano.

Ma la cosa più interessante, sebbene un po’ angosciante, sono le gallerie sotterranee. Alcuni chilometri di tunnel, tra i 20 e 30 metri di profondità, costruiti, a partire dal 1937, per difendere tutti gli abitanti dai possibili attacchi aerei. In una calda giornata d’estate si apprezza il refrigerio di questi ambienti: non più di 10 gradi. Però camminando per questi lunghissimi corridoi non si può evitare di percepire l’angoscia della quale sembrano trasudare queste pareti. E ti puoi solo vagamente immaginare la sensazione che, durante un’evacuazione, si doveva provare qui dentro. Tutti stipati come animali ma rassicurati dal fatto che “la disciplina è la miglior garanzia di salvezza”. E la disciplina la ritrovi nelle ferree indicazioni come quella che ci ricorda che “è assolutamente vietato sputare”. Cose di altri tempi, ma non così lontani.  

Nel ventre del monte vuoto

Avevo già visto parecchie grotte carsiche e pensavo di capirci qualche cosa ma, prima di venire qui in Garfagnana, in realtà non sapevo niente di Speleologia. Non sarà maestoso come le Grotte di Frasassi ma l’Antro del Corchia è comunque uno spettacolo unico, assolutamente da vedere. Ma d’altra parte ogni grotta è unica nel suo genere. La montagna vuota, così viene definito il Corchia, ha nella sua pancia oltre 100 Km di gallerie di cui solo 70 km già esplorati e solo 2 percorsi da Andrea Piazza (al seguito della guida).

Qui a Levigliani sono organizzatissimi: un doppio bus navetta (per le grotte e la miniera di mercurio) e tutto quello che serve a noleggio (ti affittano anche la felpa se arrivi in grotta a maniche corte). “Sembra di essere in Germania” ha commentato un visitatore che era nel mio gruppo.
Ma quello che non dimenticherò mai è la salita alle grotte con la navetta. Lasci l’auto a Levigliani e prendi il bus che si arrampica su una salita dalla pendenza improponibile. E già ti chiedi “chi me l’ha fatto fare?”. Poi sale per una strada mono-corsia con strapiombi mozzafiato. E su certi tornanti deve pure fare manovra. Che ad un certo punto ti trovi con la roccia davanti al muso del bus e il vuoto dietro alle gomme posteriori. Tra i passeggeri cala un silenzio agghiacciante.
In discesa c’è al volante un autista donna. Fa manovra su un tornante e dietro di lei ci siamo noi, 50 persone mute, col fiato sospeso. E nel silenzio generale (io userò la H al posto della C per un suono toscano) l’autista esclama : “Senti hhe silenzio! Pare hhe sono sola!”🤣🤣🤣

In coda alle foto della Grotta metto anche le immagini della miniera dove, dal medioevo fino agli anni ’70, si estraeva il Mercurio. Piccola nota da turista saccente: il Mercurio solitamente, anche qui a Levigliani, viene estratto dal Cinabro (solfuro di Mercurio) un minerale di colore rosso. Esistono però 4 miniere in tutto il mondo dove il Mercurio affiora direttamente (non in forma di solfuro) dalla roccia. La miniera di Levigliani è una di quelle 4. E’ un fenomeno rarissimo che, da un punto di vista industriale, non ha nessun valore. Ma vedere le gocce di Mercurio che affiorano dalla roccia è uno spettacolo che desta stupore.