Quattro passi nel letto del grande fiume

La siccità dei record, mai così poca pioggia negli ultimi 200 anni. Così è stata definita questa arsura che sembra non aver fine. Ma io volevo guardarla negli occhi e allora, sabato mattina, mi sono concesso una passeggiata nel letto del “grande fiume” (o sedicente tale).
Lo scenario è desolante. Un rigagnolo quasi stagnante ecco come si presenta quel fiume che, con la rete dei suoi affluenti, dovrebbe essere l’arteria vitale della pianura padana.
Quando, dopo tanto camminare, ti trovi di fronte ad un po’ di acqua la scena è quasi “moseitica” (lo so che il termine non esiste, ma suonava molto figo). Solo che Mosè, di fronte a Mar Rosso, dovette provare un senso di onnipotenza. Tu invece qui, di fronte a questo fiume “evaporato”, provi solo un senso di sconforto e inquietudine.

Quella che, in altri periodi dell’anno, viene chiamata “isola” adesso la raggiungi a piedi. Potrebbe essere quasi un Mont Saint-Michel fluviale della bassa padana. Se non fosse che qui le maree c’entrano poco.
E lì, sull’isola al centro del Po, la flora resiste e si aggrappa alle ultime tracce di umidità.

Ma non finisce mica qui. Sono sicuro infatti che, tra pochi mesi, torneremo qui per documentare l’ennesima piena straordinaria. E via così a colpi di eventi climatici abnormi. Perchè “Global Warming” vuol dire questo: vivere in un mondo dove la normalità è un lusso perduto.

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Nei viaggi niente accade per caso

Raccontare degnamente una sera passata ad ascoltare Paolo Rumiz è come descrivere, su un risvolto di copertina, l’intensità di una vita intera: Impossibile!
Rumiz racconta i suoi viaggi, parla dei suoi libri e narra le sue esperienze con la stessa passione di un bimbo che racconta, con gli occhi luccicanti di emozione, la sua fiaba preferita. E’ un narratore che coinvolge, emoziona, seduce.

“Il filo infinito”, ovvero il libro presentato ieri sera a Sommacampagna, è un viaggio benedettino alle radici dell’Europa. Questo viaggio nasce da una coincidenza ma, come sottolinea Rumiz, “nei viaggi niente accade per caso”. L’autore, durante un viaggio sull’Appennino ferito dal sisma del 2016, si trova di fronte alla statua di San Benedetto che svetta tra i detriti del terremoto. Ma le macerie della Norcia colpita dal sisma sono, in senso metaforico, le macerie dell’ideale europeo.  

Da quel “casuale” incontro con San Benedetto inizia un viaggio che cambierà l’autore. Lui, che si definisce “laico, anticlericale, mangiapreti”, viaggia nei monasteri benedettini di tutta l’Europa e ritorna profondamente mutato. La riscoperta del santo di Norcia è in realtà una riscoperta delle radici dell’ideale europeo. I monasteri benedettini, nella narrazione di Rumiz, furono il baluardo capace di convertire i barbari e gettare le basi dell’Europa. La spiritualità, l’impegno e la “Regola” dei benedettini furono capaci di “colonizzare, cristallizzare, sedentarizzare, convertire e civilizzare” i barbari venuti da lontano. Furono il pane, il vino, la musica e la spiritualità benedettine a sedurre e convertire la barbarie in civiltà. Perché ai quei tempi, come ricorda l’autore, nei monasteri la fede era una “mobilitazione sensoriale totale”.

Rumiz parla ampiamente della “Regola” benedettina che definisce, con un’interpretazione etimologica, come una “balaustra che ti impedisce di cadere nel vuoto”. E il primo elemento della Regola è la puntualità. Ce l’ho. Questa ce l’ho pure io. Anzi io ho la “anticipalità”: dico io, perché arrivare puntuali se puoi essere lì 2 ore prima? Chi è più benedettino del sottoscritto?

la dedica dell’autore

L’ideale europeo è quello che si caratterizza per l’accoglienza che è, come ricorda Rumiz, una caratteristica del femminile, della madre. Al contrario della “Regola” che caratterizza più la figura paterna (OK, questa mi manca, qui sono un po’ meno benedettino).  D’altra parte, e questa è un’immagine semplice ma sconvolgente, il monoteismo di Cristo è quello che “toglie la spada dalla mano dell’uomo e gli impone l’ascolto, che è caratteristica tipica della madre”. E sono sempre parole dell’autore “laico, clericale, mangiapreti”.

Ma questo “ideale europeo” non nasce mai da una speranza quanto piuttosto dalla disperazione. L’ideale dell’Europa unita cresce nelle trincee della prima guerra mondiale. Si afferma dopo gli orrori del Nazismo. Benedetto da Norcia patrono d’Europa, d’altra parte, è l’esempio di quel mondo appenninico, caratterizzato da una “cultura sismica”, che è metafora dell’Europa stessa: un mondo sempre capace di rinascere dalle sue macerie.   

E se oggi l’ideale europeo è in crisi è solo per mancanza di memoria, la crisi nasce dall’aver dimenticato gli orrori dei quali siamo stati capaci noi europei. Quindi, proprio perché oggi le cose vanno male, “abbiamo bisogno di un sogno Europeo”. Potrà sembrare una bella fiaba ma d’altra parte, come ricorda lo scrittore triestino, “abbiamo un tremendo bisogno di fiabe, anche noi adulti”.

L’Europa, nelle parole di Rumiz, diventa una “terra che da millenni è capolinea di popoli che, una volta arrivati lì, non hanno altra scelta se non ammazzarsi o convivere insieme”. Da sempre l’Europa accoglie chi arriva e lo trasforma in un europeo. Ma se questo meccanismo oggi è in crisi non è perché gli immigrati di oggi sono dei nuovi “barbari” ma solo perché noi europei siamo molto più deboli, e spiritualmente fragili, rispetto a quei primi “europei” dei monasteri benedettini. I problemi di oggi, come la crisi del capitalismo ed il riscaldamento globale, riguardano tutti allo stesso modo. Ma tutti siamo deboli di fronte a questi problemi, per questo è necessario restare uniti.  

La narrazione di Rumiz si fa quasi Poesia quando paragona lo scemare dell’ideale europeo ad “una bella donna che se ne va e, mentre lei si allontana, tu senti un vuoto dentro”. E per concludere l’autore propone la lettura, in anteprima dal suo “Canto per Europa”, di alcuni passi come questo: “Benedetto sia chi non conosce la rotta e sa affrontare il mare nero”.

Faraway, So Close!

Forse sarà perché, venendo in qua, stavo ascoltando gli U2. Tutte le volte che penso a questo posto mi viene in mente la canzone “Faraway, So Close!”: Così lontano, così vicino.
Monte Isola è proprio questo, un micro cosmo lontano da tutto eppure al centro della mondo (o perlomeno al centro della Lombardia, senza alludere ad un’ipotetica Teoria Tolemaico-Padana).

Ma perché uno decide di andare su un’isola? Forse per cercare se stesso? Beh io ho trovato… una giornata di sole. Ed è già qualcosa. A parte gli scherzi fin da ragazzo mi ha sempre affascinato questo luogo. Ma solo oggi ho ceduto alla tentazione di attraversare col traghetto quegli 800 metri di acqua.

Arrivando qui, all’uscita dell’ultimo tunnel, sono stato sopraffatto dall’estasi causata dal panorama. L’affaccio sul lago di Peschiera Maraglio dominata, poco più in alto, dal Santuario della Ceriola. E nel mezzo del lago l’isoletta di San Paolo. Non riuscivo a staccare gli occhi dal panorama, ho smesso di ascoltare il navigatore e di seguire i segnali. Risultato: strada sbagliata e chissà quante multe avrò beccato.

Dopo lo sbarco a Peschiera Maraglio mi sono lanciato subito nella salita alla Ceriola. La pendenza, nella prima parte, spezza le gambe poi diventa più dolce. I sentieri sono spesso lastricati e, in alcuni casi, si trasformano in una cementata a prova di scooter. E infatti, per una sorta di “contrappasso lacustre”, ho rischiato di essere investito da uno Yamaha Neo’s come il mio.
Su questa isola “Scooter” è la parola chiave. Non vedevo così tanti motorini tutti insieme dai tempi di Hanoi. E comunque in Vietnam c’erano più auto, qui ovviamente nemmeno una. Proprio quello che dicevo prima “Così lontano…”.

Qui gli abitanti sono comunque dei bresciani. Ma su questo dettaglio non mi soffermo perché, relativamente alle popolazioni “trans-moreniche”, il mio giudizio è viziato da una visione Tolemaico-Mantovana. Ovviamente sto scherzando, per quelle poche cose delle quali ho avuto bisogno sono stati tutti molto gentili e disponibili.

Questa uscita comunque è stata solo una mezza improvvisata e quindi, prima o poi, voglio tornare con più calma. E comunque non sarò riuscito a carpire tutti i segreti di Monte Isola ma una cosa l’ho trovata: la Spongada. Un dolce tipico della Valcamonica che, prossimamente, voglio provare a cucinare pure io… per sentirmi un po’ Camuno.