Un borgo fantasma nel bosco incantato

Attraversata la diga di Isola Santa si imbocca il sentiero che porta al borgo fantasma di Col di Favilla. E’ un piccolo nucleo di case, parte del Comune di Stazzema, che erano nate, nel XVII secolo, come alpeggio. Nel corso del tempo il borgo si è sviluppato raggiungendo, alla fine del ‘800, una popolazione stabile. Pesantemente danneggiato durante la guerra di Liberazione è stato definitivamente abbandonato negli anni ’60.
L’escursione non è niente di eccezionale: molto tranquilla, direi per tutti. Un dislivello di poche centinaia di metri, il sentiero ben segnato, pendenze non esagerate… eppure c’è qualche cosa di diverso, di inquietante. Sarà il fatto di non incontrare altri mammiferi, se non un piccolo scoiattolo. Sarà forse la suggestione ispirata dalla salita verso un “borgo fantasma”, oppure sarà il fatto che Andrea Piazza non doveva guardare tutte le puntate di “Stranger Things” prima di partire😳. Sta di fatto che questo bosco ha qualche cosa di “stregato”.
Giro una curva e mi trovo di fronte un tronco in cui è facile individuare la sagoma di un volto umano, quasi come fosse un demone che controlla la salita. Giro attorno al tronco e lo scopro cavo, tanto che pare di poterlo abbattere con una mano. Ecco, era solo un “demone fragile”. E mi vien da pensare che, molto spesso, anche i nostri “demoni” sono solo paure fragili, basterebbe girarci intorno per scoprire che sono come tronchi vuoti. Ma quello che manca, molto spesso, è proprio il coraggio di affrontarli i nostri demoni. (questa era da manuale “Psicoterapia for Dummies”, voglio il copyright)

Intanto procedo e mi trovo di fronte una “farfalla” che mi sbarra la strada. La guardo attentanemente, non è una farfalla. Si alza si abbassa, vola, poi si ferma quindi riparte ma non è una farfalla bensì una foglia. L’ho pure filmata ma mica ho capito il trucco, forse una lunghissima ragnatela che la teneva in sospeso, ma io mica l’ho trovata la ragnatela. Faccio spallucce e passo oltre. Questo bosco resta inquietante.

Arrivo a Col di Favilla e inizio a fotografare gli antichi ruderi di quelle case diroccate. Ad un tratto un rumore, una voce… faccio un salto e mi viene la pelle d’oca. OK, sono solo due ragazzi, le prime persone che incontro oggi. Ma alla luce delle premesse lo spavento era comprensibile.
Continuo a fotografare quei ruderi. Si intravedono i resti di un camino, pavimenti e il cielo che fa da soffitto (quando si dice “Il cielo in una stanza”🤣). E mi viene da pensare ai piedi che, tra il XVII e il XX secolo, calpestarono quei pavimenti. Se le pietre di una casa hanno una memoria allora queste pietre trasmettono, in modo molto intenso, il ricordo di vite vissute in epoche lontane.
Più tardi proseguo fino alla Foce di Mosceta ed al rifugio Del Freo dove mangio una spettacolare zuppa di verdure. Qui nel bosco soffia una brezza strana, è un vento leggero ma continuo. Adesso, col senno di poi, mi sovviene quello che, due giorni dopo nel borgo di Frassignoni, il vecchio Argante chiamava “il respiro della montagna”. Strane coincidenze appenniniche, o forse gli echi di un unico esistere al quale apparteniamo tutti.

Proprio una bella escursione, alla portata di tutti. Magari però non per quelli dotati di un’immaginazione fervida come la mia.🤦‍♂️🤣🤣

Il respiro della montagna

Da dove cominciare? Ho un sacco di arretrati, di foto non pubblicate per via della scarsa connettività in Garfagnana. Ma voglio partire dalla fine, dal viaggio di ritorno e dalle sue incredibili sorprese.

Si perché arrivati ad un certo punto non sei più tu che cerchi la montagna ma è lei che, nei modi più imprevedibili, riesce sempre a trovarvi. Ieri mattina ho passato 3 ore nella Grotta del Vento sotto al Monte Pania. Uscito da lì non avevo proprio voglia di lasciare l’Appennino. Allora ho iniziato a vagabondare sulla strada del ritorno. Ho attraversato 3 province: Lucca, Pistoia e Bologna. Per poi finire, attirato da un vago presagio, nella valle dell’Alto Reno, che ormai è quasi una seconda casa. Questa piccola “odissea appenninica” mi ha portato casualmente a trovarmi, a Porretta Terme, sulle strisce pedonali proprio mentre Sante Ballerini è fermo allo stesso semaforo. Una coincidenza? Oppure è il “respiro della montagna” che mi ha attirato proprio lì in quel preciso momento?

Mi lascio “rapire” da lui e ci spostiamo nel piccolo borgo di Frassignoni dove, poco dopo, viene presentato un libro: “A veglia con Argante ovvero il respiro della Montagna”. E’ un volumetto che raccoglie le memorie di un anziano signore di Frassignoni (Ilario Biondi detto “Argante”) il quale, nel suo racconto, ci propone quell’anima contadina, fatta di sobrietà e sacrificio, che rappresenta lo spirito dell’Appennino. (Le ultime parole non sono mie ma tratte dal sociologo De Rita che, in un articolo sul Corriere, descrive l’Appennino come “la struttura portante senza la quale il sistema [Italia] si scioglie verso il mare”. Bellissimo articolo di cui propongo il link qui in fondo)

Le memorie di Argante, raccontate da Daniela Banchini, non sono solamente la storia di un piccolo borgo, di nome Frassignoni, del quale forse, nel resto di questa Italia, non interesserà mai nulla a nessuno. Il suo è piuttosto il racconto di una civiltà contadina fatta di solidarietà, sacrificio e dignitosa povertà. Quante Frassignoni e quanti Argante ci saranno in giro per l’Appennino e per l’Italia?

Un mondo smarrito che però, ancora oggi, ha molto da insegnarci anche, e forse soprattutto, nel nostro rapporto con l’ambiente. Per questo propongo le ultime righe di questo bellissimo volume:
“A Frassignoni il mondo non è più quello di quando ero bambino, quello che vi ho raccontato in queste pagine; ma il fascino della montagna resta. La montagna ha un suo respiro, che si sente nel bosco e nei borghi quando ci si allontana dai paesi del fondovalle e dal traffico. E’ un respiro profondo, che non tutti riescono a sentire, ma che, se inizi a percepirlo, ti attrae: ti fa capire che non sei solo, che c’è una vita più vasta, in cui uomini, alberi, animali, acqua, vento, sole, terra, pur stando ognuno al suo posto, partecipano tutti ad un unico, grande, grandissimo respiro; un respiro che forse di avverte alche in altri luoghi della terra, ma che io sento sulla mia montagna.”

Questo Argante potrebbe essere il nonno di Greta Thunberg, non vi pare?

Ed ecco l’articolo di Giuseppe De Rita

P.S. le immagini sono mie foto di repertorio scattate tra Campeda e la strada verso Sambuca, così giusto per essere precisi.

L’isola che non c’è

L’antico borgo di Isola Santa è proprio, come nelle parole di Edoardo Bennato, l’isola che non c’è. Ovvero non è un’isola, almeno come la intendiamo solitamente. E’ piuttosto un’isola del tempo, un borgo che ha attraversato i secoli per portare a noi il fascino di epoche così lontane.
Modernità e tradizione qui si incontrano o meglio si scontrano. La tradizione è in quelle pietre, in quegli edifici che hanno solcato un millennio di storia. La modernità è quella del bacino artificiale, la diga che, nel lontano 1949, ha spazzato via quasi tutto il borgo medievale. Oggi è difficile accettarlo ma allora c’era una nazione da ricostruire, una “rivoluzione industriale” da cominciare, un boom economico da innescare.

Eppure il lago artificiale, a modo suo, qui riesce a ingentilire ancor di più quel che resta dell’antico borgo.
In fin dei conti in Italia tutto sta in bilico fra tradizione e modernità. Il segreto è trovare il giusto equilibrio.

Pure Andrea Piazza è un paradosso di tradizione e modernità: mi rendo conto di essere l’ultimo Sapiens che, in questa epoca di Smartphone tuttofare, gira ancora con una reflex appesa al collo. A volte mi sento così vetusto, direi quasi “un guerriero senza patria e senza spada, con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro”.

E niente, la citazione di Bertoli ci sta sempre bene… a muso duro!

Profondità appenninica

Oggi (30 giugno), per l’ennesima volta, è saltata un’escursione pianificata da tempo. Volevo ripiegare sempre sulle Dolomiti ma poi ho pensato “Troppo casino! Troppi mammiferi della mia specie”. E quindi, alla fine, il cuore mi ha riportato qui sull’appennino.

Mi sono trovato di fronte a questo ponte medievale. A prima vista solo un mucchio di vecchie pietre, ma è un mucchio di pietre che ha attraversato la profondità dei secoli. E’, a suo modo, un “ponte del tempo”. Un angolo di Toscana che magari potrebbe anche sfuggire allo sguardo superficiale del turista distratto. E allora mi sono seduto e ho iniziato a riflettere, la montagna serve anche a questo. 
Viviamo in una società piena zeppa di superficialità dove è stata messa al bando la “profondità”. E anche questo canale (internet, social network…) dove sto scrivendo è solamente, in buona sostanza, un “megafono di superficialità”. Forse sarà perché la superficialità si vende bene? perchè è un bene di consumo di massa? Ma io mi sono fatto un’idea diversa.

Io penso che in ognuno di noi ci sia (o meglio ci potrebbe essere) qualcosa di molto profondo. Però la profondità spaventa. Ed è per questo motivo che, molto spesso, ci accontentiamo della superficialità senza scendere più giù. Affrontare la “profondità” è difficile perché significa affrontare te stesso. E una volta trovato “te stesso”, ammesso e non concesso di trovarlo, poi è un casino gestirlo. Perché “tu è” un guazzabuglio di emozioni e contraddizioni insanabili. Insomma un gran bel grattacapo. E poi, a volte, la profondità è chiusa in una confezione così ermetica che, per tirarla fuori, è necessaria una ferita profonda capace di lacerare quella confezione sigillata.

Inoltre la profondità di una persona è ingombrante, per sé e per gli altri. Invece la superficialità è come un tavolo pieghevole da pic-nic: la smonti e la porti dove vuoi. E’ quindi comprensibile che le persone, molto spesso, rinuncino alla propria profondità per nascondersi sotto la superficie, come in un gioco pirandelliano di maschere. E’ più facile e forse anche più conveniente.
Ma a questo punto una domanda sorge spontanea: io che cazzo la pago a fare una psicoterapeuta se la “psico-analisi” mi viene così bene? In una vita precedente devo essere stato il fratello serio di Woody Allen.

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Nei viaggi niente accade per caso

Raccontare degnamente una sera passata ad ascoltare Paolo Rumiz è come descrivere, su un risvolto di copertina, l’intensità di una vita intera: Impossibile!
Rumiz racconta i suoi viaggi, parla dei suoi libri e narra le sue esperienze con la stessa passione di un bimbo che racconta, con gli occhi luccicanti di emozione, la sua fiaba preferita. E’ un narratore che coinvolge, emoziona, seduce.

“Il filo infinito”, ovvero il libro presentato ieri sera a Sommacampagna, è un viaggio benedettino alle radici dell’Europa. Questo viaggio nasce da una coincidenza ma, come sottolinea Rumiz, “nei viaggi niente accade per caso”. L’autore, durante un viaggio sull’Appennino ferito dal sisma del 2016, si trova di fronte alla statua di San Benedetto che svetta tra i detriti del terremoto. Ma le macerie della Norcia colpita dal sisma sono, in senso metaforico, le macerie dell’ideale europeo.  

Da quel “casuale” incontro con San Benedetto inizia un viaggio che cambierà l’autore. Lui, che si definisce “laico, anticlericale, mangiapreti”, viaggia nei monasteri benedettini di tutta l’Europa e ritorna profondamente mutato. La riscoperta del santo di Norcia è in realtà una riscoperta delle radici dell’ideale europeo. I monasteri benedettini, nella narrazione di Rumiz, furono il baluardo capace di convertire i barbari e gettare le basi dell’Europa. La spiritualità, l’impegno e la “Regola” dei benedettini furono capaci di “colonizzare, cristallizzare, sedentarizzare, convertire e civilizzare” i barbari venuti da lontano. Furono il pane, il vino, la musica e la spiritualità benedettine a sedurre e convertire la barbarie in civiltà. Perché ai quei tempi, come ricorda l’autore, nei monasteri la fede era una “mobilitazione sensoriale totale”.

Rumiz parla ampiamente della “Regola” benedettina che definisce, con un’interpretazione etimologica, come una “balaustra che ti impedisce di cadere nel vuoto”. E il primo elemento della Regola è la puntualità. Ce l’ho. Questa ce l’ho pure io. Anzi io ho la “anticipalità”: dico io, perché arrivare puntuali se puoi essere lì 2 ore prima? Chi è più benedettino del sottoscritto?

la dedica dell’autore

L’ideale europeo è quello che si caratterizza per l’accoglienza che è, come ricorda Rumiz, una caratteristica del femminile, della madre. Al contrario della “Regola” che caratterizza più la figura paterna (OK, questa mi manca, qui sono un po’ meno benedettino).  D’altra parte, e questa è un’immagine semplice ma sconvolgente, il monoteismo di Cristo è quello che “toglie la spada dalla mano dell’uomo e gli impone l’ascolto, che è caratteristica tipica della madre”. E sono sempre parole dell’autore “laico, clericale, mangiapreti”.

Ma questo “ideale europeo” non nasce mai da una speranza quanto piuttosto dalla disperazione. L’ideale dell’Europa unita cresce nelle trincee della prima guerra mondiale. Si afferma dopo gli orrori del Nazismo. Benedetto da Norcia patrono d’Europa, d’altra parte, è l’esempio di quel mondo appenninico, caratterizzato da una “cultura sismica”, che è metafora dell’Europa stessa: un mondo sempre capace di rinascere dalle sue macerie.   

E se oggi l’ideale europeo è in crisi è solo per mancanza di memoria, la crisi nasce dall’aver dimenticato gli orrori dei quali siamo stati capaci noi europei. Quindi, proprio perché oggi le cose vanno male, “abbiamo bisogno di un sogno Europeo”. Potrà sembrare una bella fiaba ma d’altra parte, come ricorda lo scrittore triestino, “abbiamo un tremendo bisogno di fiabe, anche noi adulti”.

L’Europa, nelle parole di Rumiz, diventa una “terra che da millenni è capolinea di popoli che, una volta arrivati lì, non hanno altra scelta se non ammazzarsi o convivere insieme”. Da sempre l’Europa accoglie chi arriva e lo trasforma in un europeo. Ma se questo meccanismo oggi è in crisi non è perché gli immigrati di oggi sono dei nuovi “barbari” ma solo perché noi europei siamo molto più deboli, e spiritualmente fragili, rispetto a quei primi “europei” dei monasteri benedettini. I problemi di oggi, come la crisi del capitalismo ed il riscaldamento globale, riguardano tutti allo stesso modo. Ma tutti siamo deboli di fronte a questi problemi, per questo è necessario restare uniti.  

La narrazione di Rumiz si fa quasi Poesia quando paragona lo scemare dell’ideale europeo ad “una bella donna che se ne va e, mentre lei si allontana, tu senti un vuoto dentro”. E per concludere l’autore propone la lettura, in anteprima dal suo “Canto per Europa”, di alcuni passi come questo: “Benedetto sia chi non conosce la rotta e sa affrontare il mare nero”.

Di corsa (o quasi) su per i colli

D’accordo questo blog è dedicato all’Arte di Camminare e la corsa non ci azzecca proprio.
Ma questa esperienza podistica invernale era troppo divertente per rinunciare a raccontarla.

Domenica 27 gennaio 2019, ore 8.30: una podista (poco convinta) attraversa i vigneti sulle colline di Cavriana. C’è un po’ freddino! Ma io e Chiara siamo devoti alla Torta di San Biagio e dobbiamo stringere i denti fino all’arrivo dove ci attende una fetta di questa prelibatezza De.Co.
Il traguardo è a Villa Mirra (dove dormì Napoleone III). Ma noi ci accontentiamo di una fetta di torta, il pernottamento lo lasciamo agli “imperatori” (nella stanza omonima).

Dal punto di vista sportivo abbiamo creato una nuova disciplina. Anni fa, alla Camminata del Po, quando Chiara era piccola avevamo ideato il “Nuovo Triathlon” che era: in parte di corsa, in parte a camminare e in gran parte in braccio.

Oggi qui alla StraBiagio abbiamo concepito il “MultiThlon” ovvero:
1) un po’ di corsa
2) un po’ a camminare
3) un po’ a caminare per mano
4) trascinamento di adolescente, a “corpo morto”, in salita
5) pausa ristoro
6) pausa selfie
7) pausa e basta
8) “allacciascarpa”
9) ri-allacciascarpa dopo 20 metri dal punto 8)

Arrendersi allo stupore è la chiave di tutto


Camminare non è il mezzo per raggiungere un luogo. Quello semmai possiamo chiamarlo, più prosaicamente, spostarsi. Camminare è piuttosto attraversare mille luoghi diversi e, ad ogni passo che si compie, essere raggiunto da quei luoghi e dalle persone che incontri.
Questa è anche la lettura suggerita da un piccolo libro di Paolo Rumiz. “A Piedi” è il racconto di una traversata, da nord a sud, della penisola istriana. E’ un racconto dedicato ai più giovani e, in effetti, il registro linguistico è pensato per parlare ai ragazzi. Tuttavia questo breve racconto di viaggio può interessare “camminatori” di ogni età.

Devo ammettere che, mentre sfogliavo queste pagine, mi è venuta la tentazione di partire per l’Istria. Volevo scoprire i luoghi e conoscere i personaggi descritti in quelle paginette. Poi ho capito: questo viaggio di Paolo Rumiz non è più speciale di altri. Quello che conta non è il luogo ma il “come lo attraversi”, un viaggio non è speciale se il viaggiatore non è capace di stupirsi e meravigliarsi. Da questo punto di vista allora il “camminare”, per usare le parole dell’autore, diventa un “portare a spasso il bambino che è in me”.

Ma io non saprei trovare parole migliori di quelle di Rumiz, quindi lascio che sia lui a parlare:
Così ho dovuto fare quello che mi aveva detto anni prima il vignettista Francesco Altan al momento di partire con me per una grande traversata in bicicletta verso Istanbul.
Dovevo – ripeto le sue parole – “portare a spasso il bambino che è in me”. Significava che dovevo cercare di vedere il mondo con lo stesso occhio incantato di quando avevo dieci anni, leggevo i diari di bordo di Cristoforo Colombo o le avventure di Magellano dalle parti di Capo Horn, seguendone minuziosamente il tragitto su un vecchio atlante Zanichelli. Arrendersi allo stupore è la chiave di tutto. Il viaggio non è fatto per quelli che hanno smesso di meravigliarsi della vita.



Orogenesi cartografica

A volte le scoperte (o le riscoperte) nascono da un caso. Ho ritrovato casualmente, giù in garage, una monografia di ALP dedicata al Civetta (Luglio 1998, costo 12mila lire, con cartina 1:25.000 in allegato).

Da questo piccolo indizio ho cominciato a scavare, tra scatoloni e scaffali, ed è riemerso un piccolo tesoro cartografico accumulato nel corso di decenni e, da parecchio tempo, esiliato dalla libreria di casa per motivi di spazio.

Dalla Val Bregaglia all’Appennino Pistoiese, dal Brenta alle valli di Fiemme e Fassa, dalle Dolomiti di Sesto a quelle Bellunesi, e poi Adamello, Marmolada, Valtellina, Resegone, Lunigiana, tanta Toscana Insomma una sorta di “orogenesi cartografica” ha avuto luogo in casa mia.

Ovviamente non mancherà, nemmeno nel 2019, una tappa nella Valle del Reno, tra Porretta Terme e Sambuca Pistoiese per farmi guidare, tra i castagneti di Campeda, dal caro vecchio Sante. Ma poi ci sarà solo da vincere l’imbarazzo della scelta per scoprire nuove tappe in questo patrimonio cartografico. Non ho ancora infilato gli scarponi e sto già godendo!

Una promessa per il 2019 che sta iniziando: questo sarà l’anno dedicato alla montagna. E un solo anno forse non basterà…